di Marianna Salvatore

“Cerca bene in te stesso ciò che vuoi essere, poiché sei tutto. La storia del mondo intero sonnecchia in ognuno di noi”
Gialal al-Din Rumi

Dal momento del riconoscimento di sé allo specchio e, non meno importante, della consapevolezza di essere riconosciuto dall’altro inizia il viaggio della nostra identità lungo tutto l’arco di vita. Ma cos’è l’identità? Poeti e scrittori, filosofi, psicologi ed anche neuroscienziati si sono interrogati sul senso dell’identità e sul suo significato e tutto sommato tutti con esiti diversi. Secondo lo psicologo E. Erikson la formazione dell’identità inizierebbe in età adolescenziale e costituirebbe un’importante sfida evolutiva per l’individuo: ma si tratterebbe solo del principio, oltre all’identità sessuale dovrebbe prendere a delinearsi anche l’immagine di noi stessi da adulti…. un “come vorremmo diventare”. Per K. G. Jung, fondatore della Psicologia Analitica, la strutturazione dell’identità è strettamente legata al processo di individuazione: l’uomo si individua quando realizza pienamente se stesso, ma non nella debole dimensione del successo e del fallimento, costruzioni sociali che nulla hanno a che fare con l’interiorità unica e irripetibile di un essere umano nel mondo. Realizzarsi significa esprimere tutte le parti del proprio sé, tutto il potenziale esistenziale di cui non si è sempre consapevoli.


“Nessuno si conosce, fin quando è soltanto con se stesso e non insieme a un altro”
Wilhelm August von Schlegel

Eppure il solo rapporto con se stessi non basta. L’identità si costruisce nella relazione. L’eremita non mi ha mai convinto molto: pensa che conoscerà di più te stesso stando da solo? Come si può crescere senza l’altro? E’ solo integrandomi con l’altro che riesco ad integrare me stesso. Chi sceglie la solitudine continua a vedere le parti di sé che vuol vedere: il confronto costringe a vedere anche il resto, anche ciò che di noi rinneghiamo, misconosciamo, o che semplicemente non sappiamo di avere. Le parti rinnegate della personalità vanno ascoltate, fatte parlare, ed eventualmente accolte presso di sé come si accoglie e si accetta l’altro. Ecco perché la discriminazione è un ostacolo al nostro processo identitario: sentirsi discriminati, così come l’atto opposto, il discriminare, costringe l’individuo in un’identità labile e frammentaria. Colui che viene discriminato rischia di perdere il diritto di riconoscersi e colui che discrimina soffre già di un’identità fumosa e inconsistente.


“Lo sa perché mangio solo radici? Perché la radici sono importanti”.
da “La grande bellezza”

Ma la vita odierna percepita con Bauman nella sua “liquidità”, sembra sospingerci verso identità fluttuanti, incostanti, inafferrabili. Ma un’identità fluida è necessariamente destabilizzante? E’ mancanza di qualcosa o solo una modalità dell’essere? La sfida non è più “conosci te stesso” ma “trova te stesso”, costruisci, cambia, inventa, crea. La fluidità è inevitabile, ma forse si può percorrere solo stando ancorati alle proprie radici: allora possiamo andare ovunque, aggiungere e tagliare, oscurare e illuminare, disintegrarci e ricostituirci. Simili all’albero, che saldamente ancorato al terreno può prendere le più svariate forme, protendersi verso la luce, attorcigliarsi e incurvarsi, lambire le acque di un fiume per decenni, eppure continuare ad esserci.

Altre volte per avere la propria identità occorre invece sradicarsi ma poi ancorarsi a qualcosa di nuovo che ci sostenga, nuove radici, nuove idee, nuove parti di noi venute alla luce dopo lo sradicamento.


“Chi trova se stesso perde la sua infelicità”
Matthew Arnold

Forse l’identità non va definita ma deve esserci.

Si costituisce anche nel binomio vita e morte. Come viviamo e come pensiamo alla morte dice molto sulla nostra identità: più questa è fragile e prossima alla disintegrazione, più l’individuo può anelare alla morte. E’ possibile che la morte possa apparire come l’unica via per ricostituirsi e ricongiungersi a se stessi. Un Io disintegrato non sopporta la vita e neppure la morte: ed ecco che deve cercarla subito, non ha scelta, deve fuggire dalla mancanza di se stesso. La morte può diventare un modo per affermare se stessi quando non ne esistono altri. Eppure c’è sempre la possibilità per l’Io di individuarsi, fino alla fine e in qualunque circostanza. In questi casi la psicoterapia può essere d’aiuto: la costruzione dell’identità può bloccarsi, ma non vuol dire che sia un processo irreversibile.

Per Jung come per Erikson, l’identità di un essere umano è realizzata quando riesce a sopportare l’idea della morte ed essendo felice.


“Chiunque si osservi arresta il proprio sviluppo”
André Gide

La psicologia tout court invita ad osservarsi, ad essere consapevoli: in generale potrebbe essere un buon modo per conoscersi ed essere in rapporto con se stessi. E tuttavia la costruzione dell’identità non deve basarsi sull’autosservazione ma sul vivere pienamente, l’abbandonarsi alla propria spiritualità senza nessun rifiuto a priori, l’accogliere tutte le possibilità del nostro essere.


“Trovare Dio significa trovare se stessi”
Pierre Dehaye

A volte l’ateismo assume questo significato: colui che si dichiara assolutamente ateo non sa chi è. Dio è solo uno spauracchio, una minaccia, una presa in giro per un Io che non c’è.