Webinar – Discriminazione integrazione (23/04/2020)

Serena Naim ( laureata in Antropologia Culturale all’Università di Bologna ed è ora iscritta al Master dell’Università di Trento “Gestione delle Diversità: inclusione ed equità”. Ha lavorato per due anni nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo e dall’anno scorso collabora con lo Sportello Antidiscriminazioni di Trento, che ha contribuito a creare.


L’intervista

intervista di Miriam Pergola e Alice Sicheri

Il ruolo e la visione della donna cambiano molto da cultura a cultura. Pensa che si potrebbe arrivare ad un punto in cui le donne hanno la stessa dignità di un uomo in tutte le culture del mondo?

Penso certamente che si possa arrivare ad ottenere la pari dignità per uomini e donne in tutto il mondo (sempre con alcune variabili da cultura a cultura, ovviamente), il problema semmai è quanto tempo ci vorrà. E temo che, se non iniziamo a preoccuparci seriamente di temi come i cambiamenti climatici, l’umanità non avrà mai la possibilità di arrivarci. E anche se avremo la fortuna di arrivarci, temo che non sarà un processo irreversibile. Molte conquiste ottenute con secoli di battaglie hanno visto, nella storia, un progressivo o radicale ritorno alla situazione precedente (o talvolta peggiore). Per questo è sempre necessario vigilare, sia per non perdere i passi avanti fatti, sia per fare in modo che non tocchi a qualcun altro/a l’oppressione prima riservata a noi. Io, comunque, mi sento di avere fiducia nelle future generazioni e nella consapevolezza che le giovani donne, ma anche i giovani uomini, stanno costruendo.

 Secondo lei, cosa ha determinato l’associazione della donna ad un concetto di fragilità? E dunque, quanto categorizzare l’essere femminile come ‘inferiore’, fa in modo che le persone, nella loro identità, si sentano in dovere di non mostrare caratteri definiti come ‘femminili’, in quanto considerati una ‘debolezza’?

Un esempio nel genere femminile è la donna in carriera, la quale per raggiungere posizioni rilevanti nel mondo del lavoro, deve rinunciare spesso ad aspetti come la famiglia o diventare madre; mentre nel mondo maschile ciò si riscontra nel tanto discusso ‘toxic masculinity’.

Non è facile dare una risposta alla prima domanda. Si tratta di un dibattito ancora aperto sia nell’ambito dell’archeologia che in quello dell’antropologia e non basterebbe lo spazio di una tesi di laurea per analizzarlo. Alcune teorie sostengono che da una società sostanzialmente paritaria (le cosiddette società dei cacciatori-raccoglitori), incentrata sulla collaborazione e la condivisione, si sia passata a una gerarchica e maggiormente competitiva con lo sviluppo dell’agricoltura basata sull’aratro. Può essere che la maggiore disponibilità di cibo abbia portato ad una maggiore differenziazione nella forza fisica (nelle società con minore disponibilità di cibo, gli uomini e le donne tendono ad avere altezza, forza e peso molto più simili, ad esempio), oppure può essere nato da buone intenzioni (garantire maggiore tutela alle madri prima e dopo il parto) che poi si sono sedimentate in stereotipi che si sono irrigiditi in giudizi di valore. Quello che sappiamo per certo è che, dall’istituzione della proprietà privata alla nascita del capitalismo, la storia occidentale si è gradualmente sviluppata in una direzione sempre più individualistica e bellicosa, premiando i comportamenti aggressivi e competitivi (identificati nel maschile) e sfavorendo la collaborazione, la cura e la solidarietà (identificati nel femminile). Quindi sì, ogni comportamento “femminile” è considerato una debolezza e per questo gli uomini devono evitarlo il più possibile. Ma una società di aggressività totale è destinata ad autoeliminarsi, quindi è necessario che una parte della popolazione si faccia carico della parte relazionale, di cura, necessaria per sopravvivere. Per questo vengono rinforzati anche gli stereotipi legati al ruolo femminile e disincentivati, nelle bambine e nelle donne, attitudini più “maschili”.

Sulla questione della carriera c’è un articolo molto interessante di Oliver Burkeman, tradotto in italiano da Internazionale (https://www.internazionale.it/opinione/oliver-burkeman/2019/05/14/uomini-mediocri-cariche) che spiega perché si tenda a favorire gli uomini nella carriera, anche quando sono mediocri o perfino incapaci. Questo però vale per le carriere più redditizie. Nel sociale (per esempio nell’assistenza agli anziani o alle persone con disabilità), dove gli stipendi e le gratificazioni economiche sono inferiori e quindi meno appetibili per gli uomini, molti ruoli apicali sono ricoperti da donne e la gestione è spesso più orizzontale, con gruppi di lavoro, momenti di condivisione, minore differenza di stipendio e minore differenza tra i generi nella divisione dei ruoli. Un altro modello di leadership è possibile ed esiste già (e non è un caso che, tra i paesi che si sono distinti per il modo efficace di rispondere alla pandemia di Covid-19, molti siano guidati da donne), ma finché non cambieremo l’immaginario muscolare del leader forte al potere, gli uomini e le donne che vorranno fare strada nelle carriere più redditizie saranno sempre costretti/e a seguire le regole del gioco o a restare indietro. Questo significa per le donne che desiderano dei figli, dover scegliere tra famiglia e avanzamento di carriera, e per gli uomini con figli, rinunciare ad essere dei padri presenti. Inoltre la grande pressione subita da chi viene spinto/a alla competizione costante ha un impatto anche sulla sua salute mentale (non è un caso, ad esempio, che tra gli uomini ci sia un maggior tasso di suicidi e di comportamenti violenti e distruttivi). Cambiare le regole del gioco porterebbe quindi non solo un miglioramento della condizione delle donne, ma anche un maggiore benessere (non in termini economici, ma di salute psico-fisica) per gli uomini. La maschilità tossica e il disprezzo del femminile danneggiano tutt*.

I canoni della società contemporanea sono un forte elemento di influenza sull’identità del singolo. Secondo lei, in che modo l’individuo, sin da piccolo, può essere educato a non lasciarsi influenzare dagli stereotipi e dagli standard dell’ambiente in cui vive?

Credo che, al di là dell’importante ruolo delle figure educative come genitori e insegnanti, un enorme potere nell’ampliare l’immaginario e scardinare i pregiudizi sia in mano alla cultura popolare. La rappresentazione della varietà umana nei media di massa (televisione, cinema, libri, videogiochi) ha un grandissimo impatto sul modo di vedere le cose perché permette a soggetti spesso “invisibilizzati” di entrare nel panorama del possibile, cioè essere riconosciuti nella loro piena esistenza. Credo che in questo campo si siano fatti moltissimi passi avanti e che i media (specialmente quelli indirizzati al pubblico più giovane, come le serie tv e i videogiochi) abbiano cominciato ad essere decisamente più inclusivi, anche se sempre con molte eccezioni (la disabilità, per esempio, è ancora molto assente). Quello che invece possiamo fare noi, come individui, per combattere i nostri stessi pregiudizi e allargare il nostro punto di vista, è provare a selezionare le fonti da cui ci riforniamo per lo studio o l’intrattenimento. Per esempio, provare per un anno a leggere solo libri scritti da donne non occidentali, o da persone LGBT, oppure cercare film con le stesse caratteristiche. Scopriremo innanzitutto quanto sia difficile trovarli: anche in questo ambito, infatti, gran parte dello spazio è occupato da scrittori uomini occidentali cis e etero. Ma, con un po’ di fatica, scopriremo anche delle piccole perle che parlano del mondo in modo nuovo. E, ovviamente, contribuiremo a dare visibilità e riconoscimento a punti di vista che spesso non vengono presi in considerazione. Magari scoprendo anche qualcosa di noi che prima non conoscevamo.